Divorziati risposati, le sfide del prossimo Sinodo


sinodo_vescTra gli argomenti che verranno discussi nel prossimo Sinodo dei Vescovi – che avrà come tema principale la famiglia e l’evangelizzazione – vi è anche la spinosa questione relativa alla recezione della Comunione eucaristica da parte dei fedeli divorziati risposati. L’esigenza di fare chiarezza su un argomento così delicato è ormai divenuta indispensabile, sia per i fedeli che vi sono coinvolti, che per un certo tipo di prassi pastorale “mutevole”, purtroppo, da sacerdote a sacerdote.

Oggi – in attesa del Sinodo che si terrà a Roma dal 5 al 19 ottobre 2014 – i mezzi di comunicazione rilanciano, discutono e intervengono su alcune importanti questioni inerenti la famiglia e i cosiddetti “matrimoni difficili”, proponendo e ripescando le considerazioni espresse, più o meno recentemente, da alcuni teologi. Il rischio che però si corre nella trattazione di tali argomenti è quello di proporre, in rigorosa sintesi, l’intuizione teologica di un autore che lo stesso sviluppa e approfondisce in un contesto descrittivo più vasto. Fuori da tale contesto, il pensiero del teologo chiamato in causa può risultare incompleto e, in termini di interpretazione, fuorviante.

A proposito della Comunione eucaristica ai fedeli divorziati risposati, per esempio, si dice che il card. Joseph Ratzinger, prima da cardinale e poi da papa, avesse più volte considerato l’ipotesi di concedere la comunione ai divorziati risposati, nel caso in cui – si scrive – la coppia “giunga alla motivata convinzione di coscienza circa la nullità del loro primo matrimonio anche se impossibilitati di provare tale nullità per via giudiziale”. Una simile “eccezione” alla norma ecclesiale fa riferimento al cosiddetto caso di «buona fede»: se un fedele è convinto che il suo primo matrimonio è stato nullo, anche se non è riuscito ad ottenere la dichiarazione di nullità, sulla base dell’epicheia (termine tecnico riferito al caso di buona fede) potrebbe contrarre una seconda unione canonica e, sempre sulla stessa base, la Chiesa dovrebbe permetterlo (cf. Angel Rodríguez Luño, in “L’Osservatore Romano”, 26.11.1997). Joseph Ratzinger a tale obiezione rispose distinguendo tre ambiti di questione: l’indissolubilità del matrimonio è considerata una norma di «diritto divino» e la Chiesa non può approvare pratiche pastorali in contraddizione con tali norme, inoltre la coscienza del singolo è vincolata senza eccezioni a questa norma; «Nessuno è giudice nella propria causa», – dichiara Ratzinger – “le questioni matrimoniali devono essere risolte in foro esterno. Qualora fedeli divorziati risposati ritengano che il loro precedente matrimonio non era mai stato valido, essi sono pertanto obbligati a rivolgersi al competente tribunale ecclesiastico, che dovrà esaminare il problema obiettivamente e con l’applicazione di tutte le possibilità giuridicamente disponibili”; non sembra esclusa in linea di principio l’applicazione della epikèia in “foro interno” di fronte alle lungaggini procedurali che si protraggono nel tempo, ma è una questione che va ulteriormente studiata e chiarita, “dovrebbero infatti essere chiarite, precisa Ratzinger, in modo molto preciso le condizioni per il verificarsi di una «eccezione», allo scopo di evitare arbitri e di proteggere il carattere pubblico — sottratto al giudizio soggettivo — del matrimonio”.

Tali riflessioni, elaborate dall’illustre Cardinale, prendevano le mosse, con estrema prudenza e strettamente legate alla Verità di fede rivelata, da una Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede – firmata dallo stesso Ratzinger il 14 settembre 1994 – circa la recezione della Comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati, accolta con qualche critica in diversi ambiti ecclesiastici. Nel 1998, il Prefetto del Sant’Uffizio ritenne così opportuno pubblicare un ulteriore documento chiarificatore, “La pastorale del matrimonio deve fondarsi sulla verità”, per rispondere ad alcune obiezioni contro la dottrina e la prassi della Chiesa.

Giovanni Cereti, sacerdote e teologo genovese, – a partire da un canone del Concilio di Nicea del 325 – ritiene che “la Chiesa ha il potere di assolvere tutti i peccati, compreso quello di coloro che sono venuti meno al proprio impegno coniugale. Certo, il matrimonio deve essere indissolubile e il cristiano deve essere fedele al patto coniugale. Ma se per disgrazia pecca e viene meno al proprio impegno, la Chiesa può offrire una via penitenziale: di espiazione, conversione e infine di assoluzione dal peccato gravissimo di adulterio nel senso inteso da Matteo (19,9)”.
Il canone 8 del Concilio di Nicea però è riferito esplicitamente ai novaziani o catari (seguaci del Vescovo scismatico Novaziano) che intendevano rientrare nella Chiesa cattolica, in modo particolare nel caso di presbiteri e vescovi ai quali veniva chiesto di mantenere la comunione con coloro che sono passati a seconde nozze (digami – cioè i vedovi risposati). Qui – a proposito del significato del termine “digami” – ci si trova di fronte a due diverse considerazioni teologiche e filologiche, e inevitabilmente a due scuole di pensiero: digami in quanto vedovi risposati e/o persone passate a seconde nozze.
A tal proposito mons. Gerhard Ludwig Müller, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, in un documento ufficiale, ha recentemente affermato: “I Padri della Chiesa e i concili costituiscono successivamente una importante testimonianza per lo sviluppo della posizione ecclesiastica. Secondo i Padri le istruzioni bibliche sono vincolanti. Essi ricusano le leggi civili sul divorzio ritenendole incompatibili con la richiesta di Gesù. La Chiesa dei Padri, in obbedienza al Vangelo, ha respinto il divorzio e il secondo matrimonio; rispetto a tale questione la testimonianza dei Padri è inequivocabile. Nell’epoca patristica i credenti separati che si erano risposati civilmente non venivano riammessi ai sacramenti nemmeno dopo un periodo di penitenza. Alcuni testi patristici lasciano intendere che gli abusi non venivano sempre rigorosamente respinti e che a volte sono state cercate soluzioni pastorali per rarissimi casi limite”.

Dal punto di vista teologico Joseph Ratzinger afferma: 1. “La Chiesa del tempo dei Padri esclude chiaramente divorzio e nuove nozze, e ciò per fedele obbedienza al Nuovo Testamento”; 2. “Nella Chiesa del tempo dei Padri i fedeli divorziati risposati non furono mai ammessi ufficialmente alla sacra comunione dopo un tempo di penitenza”.
Tenuto conto – come sottolinea lo stesso Ratzinger – che singoli Padri, ad esempio Leone Magno, cercarono soluzioni «pastorali» per rari casi limite, si giunse così a due sviluppi contrapposti: nelle Chiese orientali separate da Roma, una maggiore flessibilità e disponibilità al compromesso in situazioni matrimoniali difficili si protrasse ulteriormente nel secondo millennio e condusse ad una prassi sempre più liberale; “oggi – precisa Ratzinger – in molte Chiese orientali esiste una serie di motivazioni di divorzio, anzi già una «teologia del divorzio», che non è in nessun modo conciliabile con le parole di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio”. Nella Chiesa d’Occidente, grazie alla riforma gregoriana, fu recuperata la concezione originaria dei Padri. “Al riguardo – chiarisce il Prefetto del Sant’Uffizio – non è esatta l’affermazione che la Chiesa cattolica avrebbe semplicemente tollerato la prassi orientale. Certamente Trento non ha pronunciato nessuna condanna formale. I canonisti medievali nondimeno ne parlavano continuamente come di una prassi abusiva. Inoltre vi sono testimonianze secondo cui gruppi di fedeli ortodossi, che divenivano cattolici, dovevano firmare una confessione di fede con un’indicazione espressa dell’impossibilità di un secondo matrimonio”.

Certamente determinate forme espressive del Magistero ecclesiale risultano, talvolta, di difficile comprensione, soprattutto se tradotte da predicatori e catechisti con un linguaggio annacquato e impreciso per “supposti” motivi ed opinabili esigenze pastorali. “Se in passato – come ricordava J. Ratzinger – nella presentazione della verità talvolta la carità forse non risplendeva abbastanza, oggi è invece grande il pericolo di tacere o di compromettere la verità in nome della carità. Certamente la parola della verità può far male ed essere scomoda. Ma è la via verso la guarigione, verso la pace, verso la libertà interiore. Una pastorale, che voglia veramente aiutare le persone, deve sempre fondarsi sulla verità. Solo ciò che è vero può in definitiva essere anche pastorale. «Allora conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32)”.

Non è difficile, pertanto, a conclusione di questa breve riflessione, comprendere le problematiche che questo tipo di trattazione impone e la serietà attraverso la quale è necessario accostarvisi, proponendo soluzioni motivate e robuste dal punto di vista dottrinale. Il biennio sinodale (2014-2015) che la Chiesa si prepara a celebrare, offrirà certamente ulteriori spunti per la riflessione.

Scritto per Korazym.org

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