Lorefice: “Il vescovo è chiamato a un governo fraterno e corresponsabile”


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Foto di Guglielmo Francavilla

Un vescovo dev’essere legato fraternamente al proprio presbiterio e capace di governare la Chiesa nel senso evangelico voluto da Cristo; un vescovo è chiamato innanzitutto «a questa prospettiva, e la via da percorrere è quella di un governo fraterno e corresponsabile! […] Tutto nella chiesa deve dire anche questa dimensione collegiale e sinodale. La stessa struttura gerarchica della chiesa è al servizio della comunione e del convergere». Sono le prime osservazioni espresse dal nuovo arcivescovo di Palermo, mons. Corrado Lorefice, durante un’intervista rilasciata a “Theofilos”, la rivista diocesana della Scuola Teologica di Base di Palermo.

A poco più di due mesi dall’ordinazione episcopale, mons. Lorefice esamina alcune importanti sfide pastorali che a Palermo e in ogni diocesi del mondo chiedono di essere affrontati. «Noi – afferma – dobbiamo andare verso la costruzione di una chiesa che si pensa in termini di sacramento, in mezzo agli uomini e alle donne che sono compagni di viaggio. Da questo punto di vista, il sacerdote è colui che deve ripensare se stesso a partire da questa identità sacramentale. Il prete – soprattutto dentro una comunità – non può che essere segno di Colui che è venuto non per essere servito ma per servire; egli deve radunare la comunità ecclesiale attorno alla Persona di Cristo, alla sua Parola e al suo Corpo». 

Il nuovo arcivescovo di Palermo intende scommettere sulla ministerialità dei laici e sulla formazione teologica e spirituale dei futuri sacerdoti, con uno sguardo rivolto alla storia. «Io credo – afferma Lorefice – che il laico non sia il subalterno del prete. […] Basterebbe riprendere in mano la struttura della Lumen gentium, per capire chi sono i laici nella chiesa. […]. Oggi, inoltre, c’è un’obbedienza alla storia di cui tenere conto, e un sacerdote non può non avere una robusta cultura teologica e umanistica. La storia va interpretata alla luce del Vangelo e dell’esperienza umana. Oggi un prete dev’essere dentro la storia, deve conoscerla, deve essere capace di leggerla e di interpretarla, perché è un luogo teologico. Pertanto, quando parliamo di formazione culturale e teologica, diciamo anche questo aspetto, l’essere cioè incarnati dentro la storia».

Alla domanda riguardante la scelta celibataria del sacerdozio, l’arcivescovo di Palermo non esita a riconoscerla come una grande ricchezza, che non va però estrapolata dall’immagine cristiana della sponsalità. «Tante volte – precisa Lorefice – parliamo del celibato, ma non sempre in termini di celibato sponsale; di contro, anche quando parliamo di sponsalità non dobbiamo dimenticare il valore del celibato, perché a mio parere si tratta di un’unica chiamata». Il tema è comprensibilmente delicato e attuale, e le sottolineature dell’arcivescovo non tardano ad esplicitare meglio questo concetto. «Il celibato – dichiara mons. Lorefice – non riguarda solo la castità sessuale, quello che deve essere vergine è il “cuore”. Il risvolto della verginità non può che essere un risvolto anche sponsale, e la sponsalità (ecco la bellezza della reciprocità del ministero verginale e del ministero sponsale) viene arricchita da chi nella comunità ricorda questo cuore indiviso, così come un prete viene arricchito dalla condivisione di vita che i coniugi sperimentano nell’amore sponsale, donandosi e facendo spazio all’altro (la storia di una famiglia, la moglie, i figli), anche attraverso un rinnegamento totale, perché l’altro sia, l’altro esista».

Oggi, in una sorta di gioco a ribasso, argomenti simili a questo non sempre vengono affrontati e posti come fondamento educativo di una crescita cristiana. «Pensate – riprende Lorefice – che cosa significhi l’annuncio della vocazione verginale anche alle nuove generazioni, in un periodo storico dove si viene assoggettati alla manipolazione dell’altro, in una voracità di brama che ci fa raggiungere l’altro e che ce lo fa profanare, non solo nel corpo ma anche nella sua essenza! […] Il problema è, piuttosto, un altro: arriva questo tipo di messaggio? E noi viviamo in questo modo il celibato?».

«Quello che io suggerisco ai giovani è di poter fare un’esperienza ecclesiale, vivere la bellezza dell’appartenenza alla Chiesa che si fonda sulla comune chiamata battesimale, perché è lì che il Signore ci chiama. Essa è il contesto ordinario dove noi apprendiamo la chiamata cristiana, come chiamata all’amore e al dono totale di sé; ed è in tale contesto che ciascuno di noi, a poco a poco, può comprendere quale deve essere concretamente il

Nell’ultima domanda proposta da “Theofilos”, circa i suggerimenti da dare ai giovani che s’interrogano sulla propria scelta vocazionale, l’arcivescovo di Palermo ricorda che la Chiesa è il contesto ordinario dove ciascun uomo apprende la propria vocazione cristiana. «O sposato o celibe – precisa mons. Lorefice –, la chiamata è una. Questo serve all’edificazione dell’unica chiesa, non c’è una vocazione migliore rispetto alle altre. Non ci potrebbe essere una comunità cristiana senza famiglie cristiane, e non ci potrebbe essere il mio sacerdozio se non ci fosse stato il sacerdozio comune di mio padre e di mia madre (che stanno per celebrare sessantun anni di matrimonio): sono maschio e femmina, Salvatore e Clementina, due mondi, due sensibilità, due psicologie diverse che ci hanno testimoniato che è possibile stare insieme per sessantun anni, attraverso un impegno umano e soprattutto con la comune fede che hanno vissuto e che ci hanno trasmesso. La comunità cristiana, oggi, ha bisogno di persone capaci di sperimentare questo tipo di sensibilità ecclesiale».

Scritto per Vatican Insider

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