Il tema della “Patria” nella vita di Karol Wojtyła


Nel suo ultimo libro, “Giovanni Paolo II. «Ama gli altri popoli come il tuo»”, edito dalla Jaca Book, il direttore della Rivista Internazionale di Teologia e Cultura, “Communio”, padre Aldino Cazzago, sviluppa e approfondisce il personalissimo e intenso rapporto di Karol Wojtyła con la sua Patria, la Polonia. Lo incontriamo per rivolgergli alcune domande.

Generalmente in un papa si è soliti mettere in rilievo i principali temi del suo magistero e del suo apostolato. Lei invece, parlando di Giovanni Paolo II, ha scelto il tema della nazione e della patria.

Oltre ai grandi temi della predicazione e del magistero, sviluppati nell’arco di un lungo pontificato, infatti, Giovanni Paolo II ci ha lasciato in eredità anche il racconto dello straordinario rapporto con la sua terra d’origine. Come ha detto lo storico Andrea Riccardi, Giovanni Paolo II è il primo papa del novecento che non si è “snazionalizzato”. In genere quando i vescovi diventano papi – proprio per la tipicità del loro ministero, specificatamente cattolico – abbandonano un pò i legami con la loro terra d’origine, Karol Wojtyła invece non ha mai nascosto – anzi ne è andato molto fiero – il suo legame con le radici polacche, e in varie circostanze ha sempre raccontato e mostrato agli altri la grande ricchezza che lui ha saputo trarre dalla cultura cristiana della sua terra, della sua patria.

In quali testi è maggiormente forte il legame di Giovanni Paolo II con la terra polacca?

Giovanni Paolo II ha cominciato a riflettere sul tema della patria e della nazione già da vescovo, per spiegare, innanzitutto a se stesso, che cos’è la patria, che cos’è la nazione. Karol Wojtyła – credo sia importante sottolinearlo – ha sviluppato tali argomenti utilizzando lo strumento della poesia. Tra le sue opere letterarie vi sono tre lunghe e bellissime poesie che dimostrano il particolare legame dell’Arcivescovo di Cracovia con la storia e la cultura polacche. Una di queste poesia s’intitola “Veglia pasquale 1966”. In Polonia si festeggiavano i mille anni del cristianesimo, e Wojtyła – quasi con la lente d’ingrandimento – rifletteva su questi mille anni di fede, alla luce del mistero pasquale. Qualche anno dopo, nel 1974 scriveva una seconda lunga poesia intitolata “Pensando patria…”, un vero gioiello di meditazione sul tema della patria; in quegli splendidi versi scriveva: “Quando penso «patria» – esprimo me stesso, affondo le mie radici, è voce del cuore, frontiera segreta che da me si dirama verso gli altri, per abbracciare tutti, fino al passato più antico di ognuno”. Per Wojtyła la patria non è una torre d’avorio, un recinto di fili spinati dietro cui nascondersi, ma addirittura una frontiera segreta che da me si dirama verso gli altri, una finestra che apre a un incontro con ciò che sta oltre se stessi. Infine mi piace ricordare la terza poesia, scritta nel 1978 pochissimi mesi prima di essere eletto papa e dedicata al santo patrono della città di Cracovia, San Stanislao morto nel 1079 per mano del re Boleslao l’Ardito. Letta a pontificato concluso possiamo dire che, senza saperlo, in questa poesia, Giovanni Paolo II – riflettendo su San Stanislao – implicitamente dice qualcosa di se stesso. “La Chiesa – scriveva – si è legata alla mia terra perché quanto vi sarà legato, resti legato nei cieli. Vi fu un uomo (Stanislao, ndr) in cui la mia terra seppe di essere legata ai cieli. Vi fu quell’uomo, quegli uomini… in ogni tempo ve ne sono… Grazie a loro la terra vede se stessa nel sacramento di una nuova esistenza”. Quando scriveva queste parole Karol Wojtyła, probabilmente, avrà pensato che la sua missione in quel contesto storico – ideologicamente pesante per l’intera nazione, ferita dalla cultura marxista che aveva come fine quello di “staccare” la terra dal cielo – era invece di ricordare a se stesso, alla Chiesa e alla Nazione che la storia polacca non poteva essere pensata e riscritta senza l’apporto del cristianesimo.

Per Giovanni Paolo II, il termine patria è solo un valore affettivo?

La risposta a questa domanda la rintracciamo nel discorso che Giovanni Paolo II fece durante il suo primo viaggio in Polonia, nel giugno del 1979. Appena atterrato a Varsavia, alle Autorità civili, espressioni del Partito Operaio Polacco, egli si rivolse con queste parole: “La parola «patria» ha per noi un tale significato, concettuale ed insieme affettivo, che le altre Nazioni dell’Europa e del mondo sembra non lo conoscano, specialmente quelle che non hanno sperimentato – come la nostra Nazione – danni storici, ingiustizie e minacce”. Nel 1920, quando nacque Karol Wojtyła, la Polonia – per 120 anni circa divisa tra Austria, Prussia e Russia – aveva ritrovato da due anni l’indipendenza. Nonostante questo divisione politica, nei Polacchi il sentimento di appartenenza alla nazione non era mai venuto meno. Tutto questo è accaduto innanzitutto – come spiegherà più volte il Pontefice nei suoi viaggi in patria – perché il popolo polacco aveva trovato nella cultura un forte fattore di coesione e di identità.

Qual era l’anima più vera di questa cultura polacca?

Era la cultura che era stata elaborata nella grande fucina del cristianesimo. Il Papa dirà ai governanti che questi mille anni di fede cristiana non possono essere sottaciuti, misconosciuti o addirittura cancellati con la pretesa di riscrivere un’altra storia. “Non è possibile – diceva Giovanni Paolo II – capire e valutare, ¬senza Cristo, l’apporto della nazione polacca allo sviluppo dell’uomo e della sua umanità nel passato e il suo apporto anche al giorno d’oggi”. Per il Papa tutti siamo legati alla terra in cui nasciamo e in cui siamo cresciuti, ma è anche facile, come constatiamo oggi più di ieri, cambiare abitudini e mentalità e omologarsi a modelli di pensiero estranei alle proprie radici e alla propria storia.

Recentemente è deceduto Tadeusz Mazowiecki, considerato uno dei padri della libertà polacca. Un intellettuale che godeva della stima di Giovanni Paolo II.

Mazowiecki – uno degli intellettuali più raffinati della cultura polacca – era stato molto vicino a Karol Wojtyła quando era ancora vescovo di Cracovia; direttore di riviste cattoliche polacche aveva aderito a Solidarność diventando uno dei consiglieri di Lech Wałęsa, il fondatore della prima organizzazione sindacale indipendente del blocco sovietico. Dopo la proclamazione dello stato di guerra nel dicembre 1981 anche lui verrà messo in prigione; nell’89 diventerà il primo Presidente del Consiglio della Polonia, finalmente libera. Appena nominato Presidente del Consiglio – lo sappiamo dall’omelia di Giovanni Paolo II del 26 agosto 1989 – Mazowiecki telefonò a Giovanni Paolo II chiedendogli di pregare per lui.

Da un papa polacco all’attuale pontefice latinoamericano, quanto è influente la provenienza geografica di un pontefice nel governo della Chiesa.

Conta moltissimo! Giovanni Paolo II, per esempio, ha più volte ricordato che anche a Roma, divenuto papa, continuava a pensare le encicliche in polacco. La lingua, infatti, non è solo uno strumento ma l’espressione di un modo di vedere le cose, di una mentalità. Il modo tipicamente polacco di vedere la realtà di Giovanni Paolo II. Un papa latinoamericano porta inscritto nella propria storia e nelle proprie vene la realtà in cui è cresciuto, la realtà di un continente attraversato da ingiustizie e da contrasti violentissimi, tra la ricchezza di pochissimi e una povertà che abbraccia grandissima parte dell’America Latina. Non ci dobbiamo meravigliare, allora, se Papa Francesco affronta spesso il tema delle periferie del mondo e della povertà. Chi diventa papa non può cancellare il suo passato, si porta dietro un bagaglio di ricchezza di tutto il suo vissuto.

Papa Bergoglio è un gesuita, sceglie di chiamarsi Francesco e nutre una particolare devozione per Teresa di Lisieux: tre carismi, che papa ne viene fuori?

Questo dovrebbe diventare istruttivo anche per noi. Papa Bergoglio è cresciuto in una tradizione ben determinata come quella dei gesuiti, cambiando il nome in Francesco abbraccia una nuova identità, suggerendo nel nome stesso una prospettiva missionaria e uno stile evangelico senza barriere. Poi il fatto che sia innamorato della santa carmelitana di Lisieux ci aiuta a capire – attraverso il carisma incarnato dalla giovane Teresa – che è possibile arrivare alle cose più grandi solo partendo dalle più piccole. Madre Teresa di Calcutta, a tal proposito, diceva alle sue suore che avrebbe voluto avere: lo spirito di povertà di san Francesco, un’attenzione alla preghiera come quella dei benedettini e l’obbedienza dei gesuiti. La ricchezza spirituale e di santità della Chiesa, così, per Madre Teresa di Calcutta diventava in certo qual modo anche la sua ricchezza. Questo è molto importante anche per noi, perché ci insegna ad aprire ancor di più il nostro cuore.

Scritto per Vatican Insider

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